Il sabato era uno dei precetti divini più
chiari, più indiscussi, quasi la tessera di riconoscimento del vero credente.
La sua osservanza era rigidamente regolata. Naturalmente si ammettevano
eccezioni per motivi di particolare gravità: portare aiuto a un uomo in
pericolo, o a una donna colta dai dolori del parto o in caso di incendio e
così via. Ma si trattava sempre di eccezioni a una regola, per Gesù invece è
cambiata la regola. Egli afferma che il bene dell’uomo si pone al di sopra
dell’osservanza del sabato, e questo non soltanto nel caso di pericolo di
vita: “E’ permesso fare del bene anche di sabato”. Gesù proclama il valore
assoluto dell’amore: è lui il profeta autorizzato a dirci che cosa Dio vuole
e che cosa non vuole, cosa ritiene più importante e che cosa meno importante:
“Il Figlio dell’uomo è signore del sabato”. Per Dio la cosa più importante è
l’uomo, il bene dell’uomo: “Ora io vi dico che qui c’è qualcosa più grande del
tempio” (12,6) – “Quanto è più prezioso un uomo di una pecora (12,12). E
questo è veramente il punto più nuovo del ragionamento di Gesù. Se i
sacerdoti possono infrangere le regole del sabato per svolgere il loro
servizio al tempio, quanto più si possono infrangere per fare del bene
all’uomo: “l’uomo è più grande del tempio”.
I farisei, invece, partendo dall’ovvio
principio che Dio è superiore
all’uomo, concludevano che l’onore di Dio era da preferirsi al bene
dell’uomo: prima l’onore di Dio, poi il bene dell’uomo. Anche questo sembra
un ragionamento ineccepibile e invece nasconde una stortura fondamentale, un
errore teologico primario. Si suppone, infatti, che l’onore di Dio (di un Dio
che è amore) possa trovarsi in conflitto con il bene dell’uomo, possa realizzarsi
al di fuori del bene dell’uomo. Invece la gloria di Dio è sempre – e
unicamente – nel bene dell’uomo. La signoria di Dio resta indiscussa e il
dovere fondamentale dell’uomo resta sempre l’obbedienza: ma la signoria di
Dio si manifesta nell’amore, qui sta il suo onore. E l’osservanza del sabato
deve essere una celebrazione di questo amore, non una smentita.
Lo scopo di questo sommario è di
introdurre la citazione tratta da Isaia 42, 1-4, citazione che è riportata da
una delle rare allusioni di Mt al segreto messianico di Mc (v. 8,4). La
citazione tratta da Isaia si riferisce non solo alla missione del Servo a
favore dei pagani (e questo concetto viene incluso da Matteo nella sua
citazione), ma è intesa come una forte contrapposizione all’accusa dei
farisei riportata nel brano successivo.
L’accusa si trova anche in Mc 3, 20-22 ma
senza il racconto del miracolo. Il miracolo è descritto soltanto nei suoi
elementi puramente essenziali: l’interesse è nella discussione non nel
miracolo in sé. Mt aggiunge “cieco” al “muto” di Lc. L’accusa abbassa Gesù al
livello di uno stregone (Beelzebul: nome tratto da 2 Re 1, 2-6, era una
divinità cananea il cui nome significa “Baal il principe”, ma l’ortodossia
monoteista ne ha fatto “il principe dei demoni”), esisteva, infatti, a quel
tempo la concezione che tali opere prodigiose potessero essere operate con
l’aiuto dei demoni.
La prima argomentazione data in risposta
si basa sull’assurdità dell’accusa dei farisei. Se Gesù scaccia i demoni per
virtù di Beelzebul, allora il regno di satana è destinato alla rovina a
motivo della sua stessa interna lotta distruttiva. I farisei sono restii ad
ammettere questa logica deduzione. Viene qui senza alcun dubbio affermato il
principio che la distruzione del regno di satana avverrà alla fine dei tempi.
La seconda argomentazione, mancante in Mc,
è dedotta dagli esorcismi operati da Gesù, che a differenza di quelli
giudaici, fatti di lunghi e complicati riti, con numerosi contatti e formule
magiche, quelli di Gesù sono operati
mediante un semplice comando, unito talvolta, a un semplice contatto fisico.
La parabola dell’uomo forte mostra che
Gesù è completamente padrone dei demoni. Il brano si conclude con il detto
concernente la bestemmia contro lo Spirito Santo.
A chiunque parla male del Figlio dell’uomo
sarà perdonato, perché di fronte a Gesù, che si dichiara Figlio di Dio, che
appare pur sempre un uomo come noi, è in qualche modo comprensibile il
rifiuto, c’è posto anche per la buona fede. Ma la bestemmia contro lo Spirito
Santo non verrà perdonata perché, da parte dell’uomo, c’è una chiusura alla
verità, un rifiuto volontario e cosciente alla luce.
I vv. 33-37 sono stati inseriti in questo
contesto perché idoneo a descrivere l’incredulità ostinata dei farisei. I
detti si agganciano tutti al tema della parola in quanto rivelatrice del
carattere genuino della persona. La persona cattiva non può parlare bene
perché il suo cuore è cattivo. Il cuore nella Bibbia è la sede
dell’intelletto e dei sentimenti. Per Gesù il primo dovere dell’uomo è di
tenere pulito il proprio cuore, prima ancora di seguirne i dettami. Perché
non si tratta solo di fare cose con cuore (si possono fare di cuore anche
cose sbagliate), ma di fare cose che provengono da un cuore retto, capace di
intuire il disegno di Dio e di valutare il giusto e l’ingiusto.
Gli scribi e i farisei chiedono a Gesù un
“segno”, forse un segno più convincente di quelli compiuti finora, ma Gesù
rifiuta con sdegno simile pretesa. A questa generazione, dice, non sarà dato
alcun segno, se non il segno di Giona profeta.
Nella interpretazione di Matteo il segno
di Giona è la risurrezione, ma il pensiero volge anche in un’altra direzione:
cioè il confronto fra l’accoglienza che ebbe la predicazione di Giona e
l’accoglienza che ha invece la predicazione di Gesù. Il confronto si tramuta
in una severa condanna e ripropone quella constatazione che l’evangelista ha
più volte sottolineato: i pagani sono più disponibili alla parola di Dio
degli stessi giudei.
Gesù scaccia i demoni ma essi tornano,
questo significa che il tempo di satana continua e la lotta non finisce mai,
anzi, sembra intensificarsi. Il discepolo non deve perciò mai sentirsi
arrivato e al sicuro, immune dalla tentazione del peccato. Ma questo
avvertimento di Gesù va visto anche in una prospettiva collettiva, è rivolto,
infatti, a “questa generazione perversa”. Egli avverte che la sua venuta, che
pure inaugura il Regno di Dio, non sottrae le generazioni alla possibilità di
cadere nel dominio di satana. Di fronte alla venuta di Gesù, satana non cessa
di colpire, ma intensifica i suoi attacchi, e ci si può trovare in una condizione
peggiore della prima. Come appunto avviene dei suoi contemporanei.
I
capitoli 11 e 12 hanno ripetutamente evidenziato la cecità di “questa
generazione”, una generazione che assomiglia a quei bambini che rifiutano un
gioco e anche l’altro, e che dopo aver visto tanti segni ne chiede altri. Ma
accanto a questo quadro fortemente negativo c’è anche un filo positivo:
all’inizio la grande figura del Battista, poi i “semplici” ai quali è
piaciuto al Padre rivelare “queste cose”, e ora – a modo di conclusione – i
discepoli, la vera famiglia di Gesù. L’episodio è comune a tutta la
tradizione sinottica e contiene una lezione molto chiara: agli occhi di
Cristo, e per appartenere al Regno, non è la parentela fisica che conta (tanto
meno l’appartenenza a una razza o a un popolo), ma soltanto la fede, e
precisamente una fede concreta, fatta di ascolto e di opere: “Chiunque fa la
volontà del Padre mio”.
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