sabato 8 febbraio 2014

Vangelo secondo Matteo

Dispute sabbatiche (12, 1-14)
Il sabato era uno dei precetti divini più chiari, più indiscussi, quasi la tessera di riconoscimento del vero credente. La sua osservanza era rigidamente regolata. Naturalmente si ammettevano eccezioni per motivi di particolare gravità: portare aiuto a un uomo in pericolo, o a una donna colta dai dolori del parto o in caso di incendio e così via. Ma si trattava sempre di eccezioni a una regola, per Gesù invece è cambiata la regola. Egli afferma che il bene dell’uomo si pone al di sopra dell’osservanza del sabato, e questo non soltanto nel caso di pericolo di vita: “E’ permesso fare del bene anche di sabato”. Gesù proclama il valore assoluto dell’amore: è lui il profeta autorizzato a dirci che cosa Dio vuole e che cosa non vuole, cosa ritiene più importante e che cosa meno importante: “Il Figlio dell’uomo è signore del sabato”. Per Dio la cosa più importante è l’uomo, il bene dell’uomo: “Ora io vi dico che qui c’è qualcosa più grande del tempio” (12,6) – “Quanto è più prezioso un uomo di una pecora (12,12). E questo è veramente il punto più nuovo del ragionamento di Gesù. Se i sacerdoti possono infrangere le regole del sabato per svolgere il loro servizio al tempio, quanto più si possono infrangere per fare del bene all’uomo: “l’uomo è più grande del tempio”.
I farisei, invece, partendo dall’ovvio principio che Dio è  superiore all’uomo, concludevano che l’onore di Dio era da preferirsi al bene dell’uomo: prima l’onore di Dio, poi il bene dell’uomo. Anche questo sembra un ragionamento ineccepibile e invece nasconde una stortura fondamentale, un errore teologico primario. Si suppone, infatti, che l’onore di Dio (di un Dio che è amore) possa trovarsi in conflitto con il bene dell’uomo, possa realizzarsi al di fuori del bene dell’uomo. Invece la gloria di Dio è sempre – e unicamente – nel bene dell’uomo. La signoria di Dio resta indiscussa e il dovere fondamentale dell’uomo resta sempre l’obbedienza: ma la signoria di Dio si manifesta nell’amore, qui sta il suo onore. E l’osservanza del sabato deve essere una celebrazione di questo amore, non una smentita.
Lo scopo di questo sommario è di introdurre la citazione tratta da Isaia 42, 1-4, citazione che è riportata da una delle rare allusioni di Mt al segreto messianico di Mc (v. 8,4). La citazione tratta da Isaia si riferisce non solo alla missione del Servo a favore dei pagani (e questo concetto viene incluso da Matteo nella sua citazione), ma è intesa come una forte contrapposizione all’accusa dei farisei riportata nel brano successivo.
L’accusa si trova anche in Mc 3, 20-22 ma senza il racconto del miracolo. Il miracolo è descritto soltanto nei suoi elementi puramente essenziali: l’interesse è nella discussione non nel miracolo in sé. Mt aggiunge “cieco” al “muto” di Lc. L’accusa abbassa Gesù al livello di uno stregone (Beelzebul: nome tratto da 2 Re 1, 2-6, era una divinità cananea il cui nome significa “Baal il principe”, ma l’ortodossia monoteista ne ha fatto “il principe dei demoni”), esisteva, infatti, a quel tempo la concezione che tali opere prodigiose potessero essere operate con l’aiuto dei demoni.
La prima argomentazione data in risposta si basa sull’assurdità dell’accusa dei farisei. Se Gesù scaccia i demoni per virtù di Beelzebul, allora il regno di satana è destinato alla rovina a motivo della sua stessa interna lotta distruttiva. I farisei sono restii ad ammettere questa logica deduzione. Viene qui senza alcun dubbio affermato il principio che la distruzione del regno di satana avverrà alla fine dei tempi.
La seconda argomentazione, mancante in Mc, è dedotta dagli esorcismi operati da Gesù, che a differenza di quelli giudaici, fatti di lunghi e complicati riti, con numerosi contatti e formule magiche, quelli di Gesù  sono operati mediante un semplice comando, unito talvolta, a un semplice contatto fisico.
La parabola dell’uomo forte mostra che Gesù è completamente padrone dei demoni. Il brano si conclude con il detto concernente la bestemmia contro lo Spirito Santo.
A chiunque parla male del Figlio dell’uomo sarà perdonato, perché di fronte a Gesù, che si dichiara Figlio di Dio, che appare pur sempre un uomo come noi, è in qualche modo comprensibile il rifiuto, c’è posto anche per la buona fede. Ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non verrà perdonata perché, da parte dell’uomo, c’è una chiusura alla verità, un rifiuto volontario e cosciente alla luce.
I vv. 33-37 sono stati inseriti in questo contesto perché idoneo a descrivere l’incredulità ostinata dei farisei. I detti si agganciano tutti al tema della parola in quanto rivelatrice del carattere genuino della persona. La persona cattiva non può parlare bene perché il suo cuore è cattivo. Il cuore nella Bibbia è la sede dell’intelletto e dei sentimenti. Per Gesù il primo dovere dell’uomo è di tenere pulito il proprio cuore, prima ancora di seguirne i dettami. Perché non si tratta solo di fare cose con cuore (si possono fare di cuore anche cose sbagliate), ma di fare cose che provengono da un cuore retto, capace di intuire il disegno di Dio e di valutare il giusto e l’ingiusto.
Gli scribi e i farisei chiedono a Gesù un “segno”, forse un segno più convincente di quelli compiuti finora, ma Gesù rifiuta con sdegno simile pretesa. A questa generazione, dice, non sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona profeta.
Nella interpretazione di Matteo il segno di Giona è la risurrezione, ma il pensiero volge anche in un’altra direzione: cioè il confronto fra l’accoglienza che ebbe la predicazione di Giona e l’accoglienza che ha invece la predicazione di Gesù. Il confronto si tramuta in una severa condanna e ripropone quella constatazione che l’evangelista ha più volte sottolineato: i pagani sono più disponibili alla parola di Dio degli stessi giudei.
Gesù scaccia i demoni ma essi tornano, questo significa che il tempo di satana continua e la lotta non finisce mai, anzi, sembra intensificarsi. Il discepolo non deve perciò mai sentirsi arrivato e al sicuro, immune dalla tentazione del peccato. Ma questo avvertimento di Gesù va visto anche in una prospettiva collettiva, è rivolto, infatti, a “questa generazione perversa”. Egli avverte che la sua venuta, che pure inaugura il Regno di Dio, non sottrae le generazioni alla possibilità di cadere nel dominio di satana. Di fronte alla venuta di Gesù, satana non cessa di colpire, ma intensifica i suoi attacchi, e ci si può trovare in una condizione peggiore della prima. Come appunto avviene dei suoi contemporanei.
I capitoli 11 e 12 hanno ripetutamente evidenziato la cecità di “questa generazione”, una generazione che assomiglia a quei bambini che rifiutano un gioco e anche l’altro, e che dopo aver visto tanti segni ne chiede altri. Ma accanto a questo quadro fortemente negativo c’è anche un filo positivo: all’inizio la grande figura del Battista, poi i “semplici” ai quali è piaciuto al Padre rivelare “queste cose”, e ora – a modo di conclusione – i discepoli, la vera famiglia di Gesù. L’episodio è comune a tutta la tradizione sinottica e contiene una lezione molto chiara: agli occhi di Cristo, e per appartenere al Regno, non è la parentela fisica che conta (tanto meno l’appartenenza a una razza o a un popolo), ma soltanto la fede, e precisamente una fede concreta, fatta di ascolto e di opere: “Chiunque fa la volontà del Padre mio”. 

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